Non avevo mai letto un'autobiografia prima d'ora e ho acquistato "Open" con grande curiosità, dopo aver visto comparire questo titolo in molte delle famigerate liste di "10 libri preferiti" in circolazione su Facebook qualche tempo fa. Sono arrivata un po' in ritardo, se devo essere sincera, visto che "Open" è uscito nel 2009. Di Agassi sapevo ben poco: "tennista pop star dalla lunga chioma bionda" probabilmente è la perfetta sintesi delle informazioni archiviate nella mia memoria prima di leggere questo libro. Invece ho scoperto che Andre Agassi è molto di più. Il suo racconto comincia all'alba del suo ritiro dal mondo del tennis, dopo una carriera lunga oltre 20 anni, 8 slam e una medaglia d'oro olimpica, e da subito facciamo conoscenza con un corpo devastato da anni di agonismo e di battaglie, combattute sotto il sole o la pioggia, in tutti i campi da tennis del mondo, davanti a milioni di occhi. Ma veniamo anche a conoscenza del grandissimo segreto di Agassi, un segreto decisamente difficile da immaginare: Andre odia, con tutte le sue forze e senza ombra di dubbio, il tennis. L'odio è nato quando, ancora bambino, veniva obbligato dal padre a trascorrere ore nel campo da tennis di fronte a casa, colpendo palle lanciate a folle velocità da un marchingegno artigianale che il piccolo Andre ha rinominato "Il drago". Nonostante il tennis non gli piaccia affatto, continua a giocare per non deludere suo padre. A nulla valgono le ribellioni e i colpi di testa (i capelli selvaggi, gli orecchini, le divise coloratissime), il suo destino è inesorabilmente segnato dalla volontà del padre e dal suo genuino talento. Dai tornei amatoriali fino a quelli professionisti, Andre ci accompagna attraverso una carriera straordinaria, segnata da infortuni, epiche vittorie, momenti bui, dalla rivalità con Sampras e Becker, al raggiungimento del sogno di suo padre: essere il numero uno del mondo. Agassi si apre completamente al suo lettore mostrando il proprio io, che fin dalle prime righe appare ben più complesso di quanto si potesse immaginare vedendo la sua immagine pubblica. A colpire sono le sue contraddizioni: la finta capigliatura bionda e gli abiti sgargianti, cozzano con la sua continua ricerca di cose genuine, come il rapporto con il fido Gyl e la sua famiglia; il matrimonio hollywoodiano con Brooke Shields sembra del tutto inconciliabile con il suo amore quasi commovente per la teutonica Steffi Graff. Eppure Andre Agassi è tutto questo e "Open" è un cammino verso l'accettazione delle proprie contraddizioni e una sofferta presa di coscienza che passa attraverso il dolore fisico e la depressione, per giungere all'equilibrio e alla felicità. Seppure circondato da migliaia di persone, il tennista è sempre e irrimediabilmente solo di fronte al proprio avversario, abbandonato a sé stesso di fronte alle difficoltà. Solo conoscendosi alla perfezione si può vincere la partita, calibrando le forze, imparando a capire chi sta oltre la rete, continuando a lottare punto su punto, anche quando tutto sembra perduto. E in questo sta la forza di "Open": è una storia di tennis ma che parla soprattutto di vita, e lo fa attraverso la voce di un uomo sincero e incredibilmente "umano" nella sua fragilità. Una bella lettura anche per coloro che non sono troppo interessati a questo sport.
venerdì 21 novembre 2014
giovedì 6 novembre 2014
Un libro è un libro
Anche Letture Precarie partecipa alla campagna "Un libro è un libro", contro la "discriminazione" degli ebook. Al momento quando acquistate un libro pagate l'iva al 4%, mentre acquistando un ebook la pagate al 22%. Questo è assolutamente insensato e non aiuta la causa della diffusione della lettura. Per carità, il profumo della carta, il volume che fa arredamento e bla bla bla, ma leggere è leggere e un libro è un libro, comunque la si pensi. I supporti digitali sono in piena crescita e la vendita di ebook è in aumento persino in un Paese poco avvezzo alla lettura come il nostro (solo un italiano su dieci legge almeno un libro all'anno!). Perché quindi svantaggiare questo nuovo mezzo (e avvantaggiare invece la pirateria)? Partecipare alla campagna è facilissimo. Visitate il sito dall'iniziativa (o il profilo twitter o la pagina facebook), scattatevi una foto con il pollice verso e pubblicatela su istagram o su twitter con l'hashtag #unlibroèunlibro. Contribuirete anche voi a dar voce a questa giusta campagna.
martedì 4 novembre 2014
Elena Ferrante, o di come i critici italiani sappiano criticare quel poco di buono che riusciamo ad esportare
Questo è un post un po’ polemico e non si tratta di una recensione, bensì di un commento su un articolo uscito un mesetto fa su La stampa e che riguarda Elena Ferrante. Ho scoperto questa scrittrice grazie alla trilogia napoletana de “L’amica geniale” (per rinfrescarvi la memoria, avevo scritto del primo libro l’anno scorso e trovate il post qui). Ero rimasta piacevolmente colpita dalla scrittura vera, genuina, senza fronzoli di questa autrice, che avevo cominciato a leggere con molti dubbi. Non sono una grande amante della letteratura italiana contemporanea (leggasi degli anni 2000), purtroppo neglianni ho letto molti libri che ho sempre trovato un po’ banali nello stile e nel contenuto, come se strizzassero sempre l’occhio ai baci Perugina quando scrivono d’amore o agli editoriali con violini in sottofondo di Studio Aperto quando parlano di cronaca. Come ho già scritto più volte, certi romanzi italiani mi sembrano una versione stampata dei film di Muccino, in cui tutti urlano e strepitano per mascherare il fatto che non si stanno dicendo un bel niente. Ovviamente è un’opinione del tutto personale e puntualizzo che ci sono moltissime eccezioni (Ammaniti, per esempio; Baricco, quasi sempre; Simonetta Agnello Hornby). Comunque, ero partita a leggere “L’amica geniale” con molte remore per poi ritrovarmi completamente coinvolta non solo dalla bella scrittura della Ferrante, ma anche dalla storia di Lenuccia e Lila, dalla loro lotta per emanciparsi dallo squallore della povertà e della violenza. L’attenzione di Elena Ferrante nel descrivere la condizione di questi vinti del dopoguerra napoletano mi aveva molto ricordato (seppur ovviamente in un contesto del tutto differente) iromanzi di Vasco Pratolini. Premettendo che (come ben sapete) non sono una critica letteraria, sono solo una lettrice assidua ma amatoriale, mi ha molto stupita questo articolo, uscito su “La Stampa” a inizio ottobre (qui il link), in cui l’autore, Paolo di Paolo, si scaglia con un accanimento del tutto fuori dalle righe contro Elena Ferrante. Innanzitutto mi permetto di obiettare alla lista di autori italiani che vengono citati tra i “famosi all’estero” in cui viene dimenticato Primo Levi (che invece è probabilmente l’autore più conosciuto, specialmente negli Stati Uniti). Ma passiamo alla critica alla Ferrante. Di Paolo si scaglia contro l’anonimato e la segretezza della scrittrice, come se metterci la faccia fosse un obbligo morale per un’autrice (donna?). Arriva persino a criticare il suo nome (il giochino delle assonanze con Elsa Morante sarebbe da discutere con un buono psicologo) e la sua potenziale biografia. L’apoteosi si raggiunge quando la trilogia napoletanaviene paragonata ad una nota soap opera. Insomma. Come Di Paolo asserisce “Qualcosa non torna” ma sinceramente a non tornare è questo lapidario commento. I gusti sono gusti, ma l’impressione è che spesso la critica nostrana invece di gioire per il successo di un autore che finalmente è esportabile e vendibile al di fuoridei confine nazionali, tenti con ogni forza di distruggere quanto di buono vi è, quasi con invidia e livore. Se sul New Yorker non si sprecano elogi per la scrittura della Ferrante e sul Guardian sono usciti recentemente due bellissimi articoli (uno in risposta a Di Paolo, per altro) in cui si discute della sua possibile identità e si elencano i suoi illustri fans (Jhumpa Lahiri, Zadie Smith, tanto per citarne un paio) e si elogia la sua opera, lunga ormai 20 anni (qui il link al secondo articolo), sui giornali italiani la Ferrante si critica, riducendo la sua opera ad una questione di “faccia” e di identità. Da profana mi domando cosa Di Paolo abbia letto e cosa trovi di così assurdamente scabroso nel voler mantenere l’anonimato (anche si trattasse di una mera manovra commerciale). Un libro non è il suo autore. Come mi ha insegnato unprofessore al liceo (che non ci interrogava mai sulle biografie degli autori che studiavamo in classe), la vita di uno scrittore può servire in alcuni casi a capire perchéquesti sia arrivato a scrivere un’opera, ma questa trascende l’autore stesso e non deve essere giudicata sulla base della sua biografia. Questa è la mia regola generale e continuerà ad esserlo. E continuerò anche ad amare le opere della Ferrante (e di altri notissimi autori che nella vita hanno combinato le più deprecabili azioni ma che hanno anche prodotto grandissimi capolavori) e la sua aura di mistero. I dubbi sul metro di misura di alcuni critici tuttavia resta.
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