domenica 26 gennaio 2014

"Zio Tungsteno", Oliver Sacks


Spesso amo dire che la mia anima è divisa in due. Due sono i miei grandi amori: la letteratura, con cui riempio gran parte del mio tempo libero, e la scienza, che è poi anche il mio lavoro. Sono una chimica e passo il tempo a sollazzarmi con i romanzi. Tutto questo mi era sempre parso contraddittorio (io che di solito tendo a vedere sempre tutto o bianco o nero), finché non ho letto “Il sistema periodico” di Primo Levi (che è e probabilmente resterà uno dei miei libri preferiti). Primo Levi visse tutta la sua vita con la mia stessa contraddizione e da questa scaturirono tra le più belle pagine della letteratura italiana. Ho quindi imparato a convivere con i miei due mondi ed entrambi mi hanno resa quella che oggi sono. La letteratura apre gli occhi sulla natura umana mentre la chimica mi fornisce ogni giorno gli strumenti per capire la natura e il mondo che mi circonda. Soprattutto credo abbia inculcato in me il desiderio di approfondire le cose, di andare oltre la loro apparenza e cercare di capire i meccanismi ultimi che regolano la mia vita e quella delle persone che mi circondano. Oliver Sacks mette nero su bianco qualcosa di molto simile e per questo mi sono lanciata con grandi speranze nel suo “Zio Tungsteno – Ricordi di un’infanzia chimica”. Prima un po’ di biografia: Sacks, londinese di nascita e americano di adozione, è un neurologo affermato che si è dilettato spesso nella scrittura di romanzi (di solito ispirati dalla sua esperienza medica, cosa che in più di un’occasione gli è valsa aspre critiche. Addirittura ne “I Tenenbaum” il personaggio di Raleigh St. Clair, interpretato da Bill Murray, è la caricatura di Sacks.). Ma fino all’adolescenza egli crebbe in un ambiente estremamente scientifico e, in particolare, chimico. La sua numerosa famiglia infatti annoverava svariati parenti impegnati nella matematica, nella chimica, nella fisica, che durante la sua infanzia lo incuriosirono e gli diedero strumenti sensazionali per comprendere queste branche. In particolare lo zio Dave, che dà il titolo alla autobiografia, era esperto di metalli e usava queste sue conoscenze nella sua fabbrica di lampadine a filamento di tungsteno. Grazie allo zio e agli esperimenti in un piccolo laboratorio artigianale (ma da fare invidia ai laboratori delle università italiane, sigh…), Oliver scopre i metalli e le loro proprietà, seguendo le trame affascinanti della storia della scoperta degli elementi. La storia personale di Sacks diventa pretesto letterario per condurre il lettore alla scoperta della chimica e la sua evoluzione, dagli alchimisti fino alla chimica quantistica.
Il libro è molto interessante ma può risultare pesante. Spesso le teorie riportate sono spiegate sì in modo semplicistico, ma richiedono comunque una qualche infarinatura per essere comprese. La cosa che probabilmente mi è piaciuta meno del libro è la figura stessa di Sacks, un ragazzetto asociale, un po’ spocchioso e parecchio saccente (per stessa ammissione dell’autore alla fine del romanzo). Probabilmente anche parecchio viziato dato che gli fu data la possibilità di costruire in casa un vero e proprio laboratorio chimico a meno di dieci anni (i genitori medici probabilmente erano parecchio impegnati nel lavoro perché oltre ad essere un’attività non propriamente ludica, poteva risultare anche estremamente pericolosa). L’altra pecca che ho notato è che la mia scienza, la chimica, mi è sembrata discosta dalla realtà, una scienza analitica e spesso pericolosa, dai termini difficili e racchiusa in libri polverosi e dai titoli altisonanti, una scienza spogliata della poetica bellezza che invece Primo Levi le sapeva attribuire. Sacks probabilmente non ha le stesse doti narrative di Levi, ma il risultato è che da scienza davvero capace di spiegare la vita e l’universo assume invece l’aspetto di una noiosa manfrina per pochi eletti.

Credo che sia un buon libro ma più adatto a chi ha studiato materie scientifiche o ne è appassionato, per gli altri potrebbe risultare un tomo di difficile digestione. Per tutti coloro che non lo avessero ancora letto, per capire meglio a cosa mi riferisco, leggete assolutamente “Il sistema periodico” di Levi, non ve ne pentirete.

domenica 19 gennaio 2014

"Stoner", John E. Williams

Molti di voi (me compresa) avranno sentito parlare di “Stoner” lo scorso anno ma questo libro è stato scritto nel 1965. Alla pubblicazione ricevette un buon consenso della critica e un discreto successo tra i lettori (nonostante le iniziali preoccupazioni di Williams e della sua agente, Marie Rodell, sul possibile riscontro commerciale), ma non divenne un best-seller. Il più grande successo Williams lo ottenne nel 1972 con il romanzo “Augustus” che vinse il National Book Award per la narrativa (ex-aequo con “Chimera” di John Barth). Williams non si presentò a riscuotere il premio e non scrisse più romanzi fino alla sua morte, avvenuta nel 1994, e il suo nome entrò nella schiera di quegli scrittori dimenticati dai più. E poi, come nell’editoria può accadere, un piccolo miracolo: nel 2006 venne ripubblicato dalla New York Review Books e da allora ha risvegliato l’interesse dei lettori di mezzo mondo, diventando il best seller che non era stato nel 1965. Nel 2013 è stato addirittura eletto libro dell’anno dalla Waterstones (la più famosa catena di librerie in Regno Unito), oltre a conquistare lettori illustri come McEwan, Hornby, Bret Easton Ellis, Peter Cameron e Tom Hanks. Ma cosa ha suscitato tanto clamore attorno a questo romanzo? Persino gli esperti del settore sono rimasti sorpresi di questo successo del tutto inaspettato e nato dal passaparola tra i lettori, la miglior pubblicità che un romanzo possa ricevere. Anche io mi sono interrogata su questo strano e ritardato successo, quest’estate, sotto l’ombrellone, osservando il mio fidanzato leggerlo con foga, incapace di staccarsi dalle sue pagine. Gli ho chiesto: “Come mai ti piace tanto? Di cosa parla?” e lui mi ha risposto candidamente: “In realtà non succede quasi nulla. È la storia di un uomo normale, ma è bellissima, una pagina tira l’altra.”. Ora posso confermare che è così. La storia, che Williams ha tenuto spesso a precisare non è mai autobiografica, nonostante i chiari parallelismi, comincia nel 1910 con il giovane William Stoner che approda all’università per seguire un corso di laurea in Agricoltura. Ma durante un corso obbligatorio di letteratura inglese viene letteralmente ammaliato dal sonetto 73 di Shakespeare, letto in aula dal professor Sloane, e decide di cambiare completamente il proprio corso di studi, e la propria vita. Invece di laurearsi in Agricoltura e tornare alla fattoria dove lo attendono i suoi anziani genitori, si laurea in Arte e comincia un dottorato in Letteratura Inglese. Presto diventa professore universitario e trascorre un’esistenza di studio, alle prese con una vita privata ben poco entusiasmante. La moglie Edith è presa da una personale guerra contro suo marito, in cui coinvolge anche la loro unica figlia, Grace. Mentre Edith tenta furiosamente di estrometterlo dalla sua casa, Grace cresce silenziosamente come una prigioniera in una fortezza di cristallo, compiendo in modo meccanico tutte le azioni che la madre le impone, discosta da ciò che la circonda come se la propria vita non fosse che uno spettacolo da osservare impassibilmente. Frustrato da tale tensione domestica, Stoner si butta a capofitto nella propria carriera di insegnante, motivato dal successo che pare avere con i propri studenti; ma ben presto si ritrova coinvolto in una disputa accademica con il potente professor Lomax e anche le sue ambizioni lavorative paiono essere bruscamente frenate. Si ritrova coinvolto in un rapporto extraconiugale con una giovane dottoranda, Katherine Driscoll, assaporando un po’ della felicità che gli sembrava preclusa, e scoprendo di poter provare un amore insaziabile e disperato anche per un altro essere umano, oltre che per i suoi adorati libri. Ma la vita di Stoner, senza infamia e senza lode, è la vita di un uomo infelice, alla ricerca di un senso profondo della propria esistenza, che il più delle volte pare solo essere una minuscola zattera sospinta dalla corrente irresistibile degli eventi. È questo il tratto distintivo e la forza di “Stoner”: è il racconto analitico, scarno e quasi impersonale della vita di un uomo comune, un’esistenza come ce ne potrebbero essere tante, di una persona che vive senza slanci e se ne va in silenzio, senza arrecare troppo disturbo. Ma si tratta anche di una storia di tremenda solitudine e infelicità, che viene vissuta senza tragedie o isterismi, senza grandi colpi di scena. La semplicità e la linearità della prosa di Williams sono esemplari. È un romanzo che si legge da solo, in cui ogni parola è studiata e limata per creare, attraverso il linguaggio stesso, l’impressione di normalità che permea la vita di William Stoner e che il suo autore ci descrive senza mai lasciar spazio a facili compassioni o giudizi. Ma il valore aggiunto dell’opera, a mio parere, sono le riflessioni che il protagonista si trova a fare, per lo più in modo casuale, come fossero illuminazioni, e che sono assolutamente plausibili e moderne: ogni essere umano si ritrova prima o poi a porsi le stesse domande, solo che Stoner lo fa attraverso le meravigliose parole di Williams, che si marchiano a fuoco in coloro che le leggono.

Arrivata all’ultima pagina, commossa e triste, ho capito cosa ha reso questo romanzo un successo anche a distanza di quasi cinquant’anni: William Stoner siamo tutti noi ed è per questo lo amiamo così tanto. Se non lo avete ancora letto, fatelo. Vi conquisterà.

domenica 12 gennaio 2014

"Ricordi di un vicolo cieco", Banana Yoshimoto

"Ricordi di un vicolo cieco" è una raccolta di cinque racconti che hanno come tema comune il dolore e la ricerca del significato profondo della propria esistenza. Avevo letto in precedenza e recensito per voi "La luce che c'è dentro le persone" (recensione qui), uno dei racconti estratto e inserito nella collezione Zoom di Feltrinelli. Il fil rouge che collega l'intera raccolta è la sofferenza dei propri personaggi: tutti, a causa soprattutto di eventi inaspettati e traumatici, vedono la loro vita rivoluzionata. Attraverso diverse vie tentano di unire i pezzi della loro esistenza andata in frantumi, lentamente tentano di ritrovare quella che appare come condizione inevitabile (ma difficilmente raggiungibile): la felicità. 
In "La casa dei fantasmi" Setsuko e Iwakura sono legati da un sentimento puro e profondo, nato sotto lo sguardo di due fantasmi, emblema dell'amore eterno che sconfigge anche l'avversità più ardua, la morte. In "Mammaa!", Matsuoka sopravvive ad un avvelenamento nella mensa aziendale e, come se la tossina le avesse intaccato anche il cuore, si vede spinta a mettere in discussione la propria vita e i propri affetti, interrogandosi sull'amore che prova per coloro che la circondano. Solo un ritorno alla semplicità delle proprie origini potrà condurla alla serenità. Oltre a "La luce che c'è dentro le persone", troviamo "La felicità di Tomo-Chan", in cui una ragazza fragile e segnata da tragici eventi, riesce comunque a condurre un'esistenza serena, protetta da uno sguardo soprannaturale che sente su di sè. Infine "Ricordi di un vicolo cieco" (che dà il nome all'intera raccolta e ne è forse il racconto meglio riuscito e più emblematico), in cui Mimi scopre che il proprio fidanzato sta per sposare un'altra donna. Il suo cuore in frantumi tornerà lentamente a battere grazie a puri istanti di felicità e all'amicizia con Nishiyama.
Cinque racconti molto malinconici ma sicuramente di effetto. Una riflessione sulla felicità che le cose semplici possono donarci, se impariamo a coglierle nei piccoli gesti quotidiani. Perché in fondo "In ogni caso la felicità è sempre dietro l'angolo: la felicità arriva all'improvviso, indipendentemente dalla situazione e dalle circostanze, tanto da sembrare spietata […]. È imprevedibile come lo sono le onde e il tempo. I miracoli sono sempre in arresa, senza far distinzione per nessuno."

sabato 4 gennaio 2014

"Il petalo cremisi e il bianco", Michel Faber

Sugar è la prostituta più famosa nella Londra del 1874. Tutti la desiderano, nonostante alcuni difetti fisici gli uomini impazziscono per questa diciannovenne perché non dice mai di no ai suoi clienti e sembra conoscerli nel profondo, comprendendo i loro più segreti desideri e i più nascosti pensieri. William Rackam è un giovane rampollo in difficoltà economiche, estromesso dall'azienda del padre, un ricco profumiere, a causa della sua inettitudine, e sposato con Agnes, una ragazza affetta da una misteriosa malattia che le causa sbalzi di umore e comportamenti imbarazzanti. Una notte, scorato e depresso per la sua vita mediocre e insignificante, cerca consolazione tra le braccia di Sugar, nel bordello di Mrs Castaway. Ammaliato dalla giovane prostituta, William decide di dare una svolta alla propria vita: prende in mano l'azienda del padre e, una volta raggiunto il successo professionale, riscatta Sugar, facendone dapprima la sua concubina poi l'istitutrice di sua figlia Sophie.
"Il petalo cremisi e il bianco" è un romanzo che riassumerei con l'aggettivo "contraddittorio". Michel Faber ha impiegato molto tempo a scrivere questa storia e questo traspare dalle accurate descrizioni della Londra di fine Ottocento, dagli spaccati di vita quotidiana, sia dei poveri che dei ricchi borghesi. Cibi, abiti, abitudini vengono descritte con cura maniacale, quasi come se si trattasse di un saggio. E proprio per questo motivo salta ancora più all'occhio il contrasto tra lo scenario e i personaggi, che invece sono parecchio in contrasto con i tempi. I protagonisti sono infatti distanti dai tipici personaggi di fine Ottocento, appaiono decisamente troppo moderni. La stessa Sugar è una vera e propria contraddizione. Come poteva una prostituta diciannovenne nel 1870 a essere autodidatta, colta e istruita? E come poteva un ricco borghese portarsi in casa la propria amante e addirittura affidarle l'istruzione della propria figlia? Un'altra caratteristica parecchio evidente riguarda le figure femminili che tendono ad essere divise in due categorie distinte: o prostitute (di professione o di vocazione) o caste e pazze. Il tratto che le unisce è però di non essere mai personaggi del tutto positivi. La palma del personaggio peggiore però la vince senza dubbio Rackam stesso che viene descritto in modo totalmente negativo da Faber e che a causa delle sue azioni deve subite una lenta ma inesorabile e totale sconfitta. 
Dal punto di vista della scrittura Faber passa da un linguaggio molto ricercato e forbito ad uno tremendamente scurrile. Il pretesto letterario iniziale non rientra nei miei personali gusti di lettrice: l'autore si riferisce direttamente al lettore, guidandolo per le vie di Londra e mettendolo in contatto con i personaggi. La trovo una scelta che tende ad appesantire la narrazione.
In generale è una storia avvincente, che cattura il lettore e non manca di certo di originalità. Alcuni elementi, tuttavia, rendono il romanzo poco credibile.