Scrivere di
quest’opera di Agota Kristof sarà molto complicato perché si tratta di uno dei
libri più complessi, a tratti addirittura assurdi, che io abbia mai letto. La storia
si dipana lungo tre libri: “Il grande quaderno” (1986), “La prova” (1988) e “La
terza menzogna” (1991), poi raccolti nella “Trilogia della città di K.”. Il
grande quaderno” è una raccolta di temi scritti da due gemelli che vivono
durante una guerra, in un Paese dell’est Europa invaso dapprima da un esercito
di liberatori che ben presto diventano conquistatori. La Kristof non parla mai
esplicitamente né di Ungheria né di Unione Sovietica, ma non è difficile
individuare le coordinate di questa storia se si conosce la vita di questa
scrittrice ungherese, esule dal 1956, fuggita alla repressione del regime sovietico trovando
rifugio in Svizzera. I componimenti dei bambini raccontano degli accadimenti
neri e terribili della guerra e di un’infanzia troppo presto violata. Ne “La
prova” è Lucas, uno dei gemelli ormai cresciuto, a prendere in mano le redini
del racconto, che via via assume toni sempre più scuri, duri, inquietanti. Fino
ad arrivare a “La terza menzogna” dove si capisce che in questa storia tutto
può essere il contrario di tutto e che comprendere dove finisca la realtà dei
fatti e dove cominci la fantasia malata dei vari narratori è assolutamente
impossibile. La verità non è solo legata ai punti di vista ma alle menti stesse
dei protagonisti, luogo in cui gli avvenimenti potrebbero essere accaduti
veramente. O forse no. La logica si perde nell’intreccio delle storie, degli
aneddoti che si complicano, si ingarbugliano, che si confondono delineando però
uno scenario sempre più chiaro. È una storia dura sull’impossibilità per l’uomo
di fare un’infinità di cose: di amare, sia gli altri che se stessi, l’impossibilità
di dimenticare e andare avanti, ma anche di perdonare e ricominciare da capo. Ma
soprattutto si ha l’impossibilità di ritornare finalmente a casa e di accettare
la realtà, smettendo di ingannare se stessi e gli altri nel vano tentativo di
far aderire i fatti reali alla propria visione della vita. I sentimenti dolorosi, profondi, crudeli che vengono descritti dalla Kristof, con la sua scrittura
perfettamente scarna e asciutta, ci fanno comprendere che invisibili
connessioni collegano gli uomini gli uni agli altri, anche a chilometri di
distanza, anche ad anni di distanza, senza mai aver comunicato. Le parole della
Kristof sono coltellate sublimi, sono una pece nera che cola sull’anima, macigni
che cadono sul cuore e di lì non vogliono più andarsene. E, fino all’ultima
frase, non si riesce a smettere di farsi del male, non si può rinunciare al
dolore che questa storia può suscitare.
“Trilogia
della città di K.” è un vero capolavoro anche se temo che la durezza cruda di
questa storia potrebbe scoraggiare molti lettori. Ma provateci. Se riuscirete
ad arrivare in fondo capirete quanto è in grado di regalare questo libro.
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