Non avevo mai letto Anna Maria Ortese e un mio carissimo amico (grazie
Luca!) me l’ha fatta scoprire con un regalo speciale. Prima della mia partenza
mi ha regalato “Il mare non bagna Napoli”, dicendosi certo che l’avrei
apprezzato. Non si era sbagliato. Fin dal primo racconto la voce schietta,
spesso ruvida della Ortese, mi ha catapultata dalla grigia Inghilterra alla
città di Napoli. Però quello che la scrittrice ci offre in questa raccolta di
racconti, non è il solito ritratto della bella perla del sud, del suo folklore,
del sole e del mare, della sua popolazione spensierata e allegra. La Ortese
senza pietà alcuna ci porta nelle viscere più segrete della Napoli del
dopoguerra, negli inferi di una città che non sembra vivere ma trascinarsi,
come un’enorme bestia morente che arranca in una palude. In “Un paio di
occhiali” Eugenia, di otto anni, è cresciuta nella nebbia della sua miopia e da
essa è stata sempre protetta, come da uno scudo, contro le brutture del mondo.
In “Interno familiare” Anastasia è costretta a scegliere tra la propria
famiglia, per cui lavora come schiava e dalla quale viene caricata di
responsabilità, fino a sentirsene oppressa, e la propria segreta e insperata
felicità personale. Con “Oro a Forcella” la Ortese ci conduce nei banchi dei
pegni dei quartieri popolari, dove le donne si recano per impegnare i loro
miseri gioielli e preziosi in cambio di quel poco che basta per far campare la
famiglia. Ne “La città involontaria” invece giungiamo negli inferi di una città
morente e priva di speranze. Il degrado e la miseria trasformano gli esseri
umani in larve, in ombre malate e denutrite, che sopravvivono nella loro stessa
putrefazione. Ed infine con “Il silenzio della ragione” la Ortese passa a criticare
aspramente il contesto culturale della città, ed in primis gli intellettuali e
gli scrittori di punta del suo tempo. Un racconto che probabilmente non a caso
chiude il libro, quasi come a dire che in fondo dietro a tanto degrado e
decadenza vi sia una spiegazione non solo politico-economica ma anche un
assopimento di quelle che sono state le grandi menti della Napoli anni
Cinquanta e più in generale del suo fervore culturale.
A causa di questa opera la Ortese è stata accusata di odio nei confronti di
Napoli e, anche per questo motivo, negli anni seguenti all’uscita dell’opera
(1953) abbandonò del tutto la sua città. La mia impressione di lettrice non è
stata quella di leggere odio tra le righe. In ogni parola, per quanto pietosa e
per quanto dura, al più coglievo disperazione, sconforto, voglia di riscatto.
Il fatto stesso che le storie vedano protagoniste donne coraggiose, che vivono
ogni giorno come una lotta dura a cui non si sottraggono, accende un barlume di
speranza anche nelle tenebre delle peggiori condizioni umane. Forse sì, si
tratta di una discesa verso gli inferi, ma nei gironi danteschi napoletani,
qualcosa di vivo e palpitante in fondo sembra rimanere: il coraggio delle
donne, madri, mogli, sorelle, che si fanno carico delle vite dei loro cari,
cercando di traghettarle in acque migliori. Una bella pagina della letteratura
italiana.
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