sabato 20 luglio 2013

"I ragazzi Burgess", Elizabeth Strout

Elisabeth Strout torna nel suo Maine per raccontarci una storia intensa e delicata. I fratelli Burgess, Jim e i gemelli Susan e Bob, sono cresciuti a Shirley Falls prima che i loro destini li allontanassero. Jim è un avvocato penalista di grande successo, specializzato in cause perse e famoso come una star in tutto il Paese. Bob è anch’egli un avvocato, ma decisamente meno celebre, e vive a New York tentando di riprendersi da un divorzio che lo ha devastato. Mentre i suoi fratelli sono fuggiti dal freddo e triste Maine, e dal loro doloroso passato, Susan ha invece continuato a vivere a Shirley Falls, abbandonata dal marito e sola con un figlio diciannovenne problematico, Zachary. È proprio da questo schivo e silenzioso ragazzo che la storia parte. Una sera, durante il periodo del Ramadan, senza un apparente motivo, Zach lancia nella moschea di Shirley Falls, frequentata per lo più dalla numerosa comunità somala che ha trovato rifugio nella cittadina, una testa congelata di maiale. Il ritorno dei ragazzi Burgess a Shirley Falls, per aiutare la sorella a superare il complicato processo (giudiziario e mediatico) che investe suo figlio, causa innanzitutto una rottura degli equilibri che si erano venuti a creare negli anni. Ognuno deve fare i conti con il proprio passato e con il proprio presente: Susan deve affrontare l’abbandono del marito e dei propri fratelli, oltre che il suo simbiotico e complicato rapporto con Zach; Bob ha vissuto la sua vita all’ombra del brillante fratello Jim e convivendo con un’atroce colpa, che lo ha reso una persona insicura e ansiosa. Infine Jim, apparentemente l’unico a vivere una perfetta vita familiare e lavorativa, che invece sta affrontando una crisi di mezza età che lo porta a mettere in discussione ogni cosa. I ragazzi Burgess dovranno mettere da parte il loro passato e le acredini che da sempre hanno minato il loro rapporto fraterno, per aiutare Zach, tentare di ritrovare la serenità familiare che da troppo tempo è loro mancata e affrontare quel dolore che pensavano di essersi lasciati alle spalle fuggendo a New York.


La Strout affronta di nuovo, dopo “Amy e Isabelle”, il delicato mondo dei rapporti familiari. Se nel suo primo romanzo erano le vite di una madre e una figlia a essere sezionate e investigate meticolosamente, qui sono tre fratelli, la loro rivalità, le loro incomprensioni ad essere osservate dall’occhio analitico di questa ottima scrittrice. Come in “Amy e Isabelle” anche in questo romanzo il passato, con i suoi segreti e i suoi ricordi, ricopre un ruolo fondamentale nella narrazione: i ragazzi Burgess hanno vissuto la loro vita, fatto le loro scelte e sono diventati adulti, influenzati dal ricordo doloroso e vago della morte del padre. I sensi di colpa, i rancori che hanno da sempre contraddistinto il loro rapporto vengono lentamente sviscerati dalla Strout, che, con il suo occhio attento e la sua grande sensibilità, dipinge ancora una volta una serie di personaggi umani, riusciti, reali e, naturalmente, estremamente complessi e imperfetti. Però, mentre il rapporto madre-figlia di “Amy e Isabelle” era opprimente e soffocante, come l’estate torrida in un cui si svolge la storia, ne “I ragazzi Burgess” i rapporti sono gelidi, algidi e bui, come gli inverni del Maine, tra tutti i personaggi, mariti e mogli, fratelli, genitori e figli. 

Oltre ai rapporti familiari la Strout affronta anche il delicatissimo tema dell’integrazione e dell’odio razziale dell’America post-11 settembre, un grande Paese che può accogliere, ammaliare con grandi illusioni e poi abbandonare coloro che lo popolano, mentre ne fagocita le identità per omologarle e livellarle, creando milioni di desolate solitudini.

La cosa che maggiormente apprezzo di Elizabeth Strout, oltre alla sua straordinaria bravura nel dare forma ai suoi personaggi, generalmente persone estremamente comuni ma molto sole ed emarginate (non sempre dal punto di vista economico o sociale ma dal punto di vista umano), sono il suo linguaggio, semplice, essenziale, a volte quasi scarno, e la linearità cristallina della sua narrazione. Ogni frase dà la sensazione di essere stata studiata, limata, soppesata, per raggiungere la perfezione, rispecchiando il lavoro minuzioso che effettivamente la scrittrice compie su ogni sua opera (tra le pubblicazioni di “Olive Kitteridge” e “I ragazzi Burgess” sono trascorsi cinque anni). E leggere qualcosa del genere non può che trascinare il lettore, sedurlo e convincerlo, perché ad un certo punto si smette di percepire la presenza invadente dello scrittore, come se non vi fossero più intermediari tra la storia e chi la legge. 

Ancora una volta vi consiglio questa grande scrittrice americana, da noi non ancora celebre come negli Stati Uniti (dove è osannata dalla critica e addirittura “I ragazzi Burgess” è stato paragonato a “Pastorale Americana” a Philip Roth), ma di una bravura e una profondità che non potranno certo lasciarvi indifferenti. La sua capacità di rendere straordinarie vite comuni, di provincia, è unica e inimitabile. Sperando di avervi invogliati a conoscere questa scrittrice, io aggiungo alla mia infinita lista di libri da leggere “Olive Kitteridge”, con il quale la Strout si è aggiudicata il prestigioso premio Pulitzer nel 2009 e che io, colpevolmente, non ho ancora letto.

mercoledì 10 luglio 2013

"Underworld" Don DeLillo


Ho letto “Underworld” oltre un mese fa ma ho aspettato a scriverne perché raramente in vita mia un libro mi è stato così indigesto durante la sua lettura. Andavo avanti per inerzia, perché io i libri non li abbandono. Questo fino più o meno alla metà delle oltre 800 pagine che lo compongono. Poi ho iniziato a capire, o forse ho continuato a non capire nulla ma mi sono assuefatta alla scrittura complicata e a tratti cervellotica di DeLillo, alle digressioni infinite, alle ripetizioni, ai moncherini di storie che vengono narrate e abbandonate. Mi sono affezionata a questa opera così complessa, insomma. E ora, a distanza di un mese, ne sento la nostalgia e a tratti provo il desiderio di riprenderlo in mano e riaffrontare quel meraviglioso calvario. Sindrome bipolare da lettrice, probabilmente, ma è quanto posso scrivere per farvi capire meglio le contrastanti emozioni che quest’opera ha scatenato in me.

Partiamo dall’inizio. Di “Underworld” è difficile persino riassumere la trama. Si tratta di una storia corale, che parte dagli anni 90 per andare a ritroso fino agli anni 50, escludendo il primo e l’ultimo capitolo che sono esattamente al contrario, cronologicamente parlando. La trama si dipana seguendo il destino di una palla da baseball, quella di un episodio sportivo impresso nel DNA degli americani ma per noi italiani praticamente sconosciuta: nell’ottobre del 1951, al Polo Grounds di New York si giocò una storica partita tra i New York Giants e i Brooklyn Dodgers per la conquista della National League. All’ultimo inning Bobby Thomson, con un fuoricampo sul lancio di Ralph Branca, regalò una storica vittoria ai Giants. Quel colpo è conosciuto come “The Shot Heard ‘round the World” e della palla si sono perse completamente le tracce. DeLillo invece ci racconta di come questa sia stata raccolta da un ragazzino, Cotter Martin, e abbia cominciato a entrare e uscire dalla vita di collezionisti di cimeli sportivi e da ossessionati dal baseball. Miriadi di storie che si intrecciano attraverso gli Stati Uniti e la Storia, quella con la S maiuscola. Ma tra tutti i personaggi che DeLillo introduce e rimuove dal suo racconto, è sicuramente Nick Shay il suo protagonista. Nick è cresciuto nel Bronx (come DeLillo), abbandonato dal padre italiano quando era ancora un bambino, e allevato dalla madre irlandese con il fratello minore, Matty, piccolo genio degli scacchi. È a quell’infanzia difficile, culminata con il carcere minorile, che DeLillo lentamente ci guida, a ritroso, attraverso la seconda metà del secolo scorso. Per Nick Shay, possessore della palla da baseball negli anni 90, questa è simulacro dell’imponderabilità del destino, dell’istintività che accompagna certi gesti umani che cambiano il destino dell’uomo per sempre. Come è accaduto a Branca, nel momento in cui ha deciso di lanciare la palla a Thompson proprio in quel modo, portando alla sconfitta la sua squadra, o come è accaduto allo stesso Nick, quando ha  deciso senza motivo di premere un grilletto.

Non è solo il destino a riempire le pagine di “Underworld”: c’è la Guerra Fredda e la paura della bomba atomica, il degrado del Bronx e dei quartieri poveri di New York, dilaniati dall’AIDS negli anni 80. C’è l’ossessione per la memoria e i ricordi,  e quella per i media (il video trasmesso ossessivamente dell’ennesimo omicidio perpetrato da un serial killer, accompagna gran parte del libro). Ci sono i rifiuti, che rappresentano ciò che resta della vita dell’uomo ma anche ciò che le ingombra e le avvelena lentamente. Ma soprattutto, la protagonista principale del romanzo è la rete fittissima e indistricabile di connessioni che costellano la vita di ognuno di noi. DeLillo tesse questa tela intricata con maestria e riesce nel suo intento principale: farcene capire la complessità. La Storia è fatta di destini e di storie che si incontrano solo per un attimo, solo per il tempo di uno sguardo, ma da cui si dipanano altre infinite vicende e vite. Per questo vicino a Nick Shay, alla suora del Bronx sorella Edgar o all’artista Klara Sax, troviamo anche personaggi famosi, che sono rimasti nella storia (J. Edgar Hoover, Frank Sinatra, Lenny Bruce), e accanto a banali storie di vita quotidiana troviamo grandi fatti della Storia americana. Le connessioni sono tanto contorte e complesse che vengono colte dal loro deus ex machina, Don DeLillo, mentre appaiono sotterrate, nascoste invece ai loro protagonisti. Anche a questo si riferisce il mondo sotterraneo, l’“Underworld” che dà il titolo al romanzo. Underworld è l’inferno ma è anche il sottosuolo, il luogo dove i rifiuti che Nick Shay stocca vengono lentamente gettati e, quando la Guerra Fredda termina, è sempre sottoterra che le scorie nucleari del disarmo vengono nascoste, col loro carico di morte e distruzione. Ma “Underground”, o meglio “Underwelt” è anche la pellicola leggendaria di Eisenstein che Klara Sax visiona in un certo episodio del libro. I corpi striscianti, devastati e orribilmente trasfigurati che popolano il mondo sotterraneo del film, un vero e proprio inferno post moderno, devastato dalla radioattività degli esperimenti di scienziati pazzi, non sono poi tanto diversi dai personaggi del romanzo stesso, abbruttiti dalle loro storie e dalle loro contraddizioni, abitanti di un inferno personale che tentano di nascondere e camuffare, come fa Nick Shay con i rifiuti e con il proprio passato.

Non posso e non voglio dirvi molto di questo libro. È un romanzo difficile. O almeno, per me lo è stato. Ma è anche qualcosa che di certo non avete mai letto prima d’ora, qualcosa di nuovo e assolutamente inimitabile. Da provare, con consapevolezza.