Elisabeth Strout torna nel suo Maine per raccontarci
una storia intensa e delicata. I fratelli Burgess, Jim e i gemelli Susan e Bob,
sono cresciuti a Shirley Falls prima che i loro destini li allontanassero. Jim
è un avvocato penalista di grande successo, specializzato in cause perse e
famoso come una star in tutto il Paese. Bob è anch’egli un avvocato, ma decisamente meno celebre, e vive a
New York tentando di riprendersi da un divorzio che lo ha devastato. Mentre i
suoi fratelli sono fuggiti dal freddo e triste Maine, e dal loro doloroso
passato, Susan ha invece continuato a vivere a Shirley Falls, abbandonata dal
marito e sola con un figlio diciannovenne problematico, Zachary. È proprio da questo
schivo e silenzioso ragazzo che la storia parte. Una sera, durante il periodo
del Ramadan, senza un apparente motivo, Zach lancia nella moschea di Shirley
Falls, frequentata per lo più dalla numerosa comunità somala che ha trovato
rifugio nella cittadina, una testa congelata di maiale. Il ritorno dei ragazzi
Burgess a Shirley Falls, per aiutare la sorella a superare il complicato
processo (giudiziario e mediatico) che investe suo figlio, causa innanzitutto
una rottura degli equilibri che si erano venuti a creare negli anni. Ognuno
deve fare i conti con il proprio passato e con il proprio presente: Susan deve
affrontare l’abbandono del marito e dei propri fratelli, oltre che il suo
simbiotico e complicato rapporto con Zach; Bob ha vissuto la sua vita all’ombra
del brillante fratello Jim e convivendo con un’atroce colpa, che lo ha reso una
persona insicura e ansiosa. Infine Jim, apparentemente l’unico a vivere una
perfetta vita familiare e lavorativa, che invece sta affrontando una crisi di
mezza età che lo porta a mettere in discussione ogni cosa. I ragazzi Burgess dovranno
mettere da parte il loro passato e le acredini che da sempre hanno minato il
loro rapporto fraterno, per aiutare Zach, tentare di ritrovare la serenità
familiare che da troppo tempo è loro mancata e affrontare quel dolore che
pensavano di essersi lasciati alle spalle fuggendo a New York.
La Strout affronta di nuovo, dopo “Amy e Isabelle”, il delicato mondo dei rapporti familiari. Se nel suo primo romanzo erano le vite di una madre e una figlia a essere sezionate e investigate meticolosamente, qui sono tre fratelli, la loro rivalità, le loro incomprensioni ad essere osservate dall’occhio analitico di questa ottima scrittrice. Come in “Amy e Isabelle” anche in questo romanzo il passato, con i suoi segreti e i suoi ricordi, ricopre un ruolo fondamentale nella narrazione: i ragazzi Burgess hanno vissuto la loro vita, fatto le loro scelte e sono diventati adulti, influenzati dal ricordo doloroso e vago della morte del padre. I sensi di colpa, i rancori che hanno da sempre contraddistinto il loro rapporto vengono lentamente sviscerati dalla Strout, che, con il suo occhio attento e la sua grande sensibilità, dipinge ancora una volta una serie di personaggi umani, riusciti, reali e, naturalmente, estremamente complessi e imperfetti. Però, mentre il rapporto madre-figlia di “Amy e Isabelle” era opprimente e soffocante, come l’estate torrida in un cui si svolge la storia, ne “I ragazzi Burgess” i rapporti sono gelidi, algidi e bui, come gli inverni del Maine, tra tutti i personaggi, mariti e mogli, fratelli, genitori e figli.
Oltre ai rapporti familiari la Strout affronta anche il delicatissimo tema dell’integrazione e dell’odio razziale dell’America post-11 settembre, un grande Paese che può accogliere, ammaliare con grandi illusioni e poi abbandonare coloro che lo popolano, mentre ne fagocita le identità per omologarle e livellarle, creando milioni di desolate solitudini.
La cosa che maggiormente apprezzo di Elizabeth Strout, oltre alla sua straordinaria bravura nel dare forma ai suoi personaggi, generalmente persone estremamente comuni ma molto sole ed emarginate (non sempre dal punto di vista economico o sociale ma dal punto di vista umano), sono il suo linguaggio, semplice, essenziale, a volte quasi scarno, e la linearità cristallina della sua narrazione. Ogni frase dà la sensazione di essere stata studiata, limata, soppesata, per raggiungere la perfezione, rispecchiando il lavoro minuzioso che effettivamente la scrittrice compie su ogni sua opera (tra le pubblicazioni di “Olive Kitteridge” e “I ragazzi Burgess” sono trascorsi cinque anni). E leggere qualcosa del genere non può che trascinare il lettore, sedurlo e convincerlo, perché ad un certo punto si smette di percepire la presenza invadente dello scrittore, come se non vi fossero più intermediari tra la storia e chi la legge.
Ancora una volta vi consiglio questa grande scrittrice americana, da noi non ancora celebre come negli Stati Uniti (dove è osannata dalla critica e addirittura “I ragazzi Burgess” è stato paragonato a “Pastorale Americana” a Philip Roth), ma di una bravura e una profondità che non potranno certo lasciarvi indifferenti. La sua capacità di rendere straordinarie vite comuni, di provincia, è unica e inimitabile. Sperando di avervi invogliati a conoscere questa scrittrice, io aggiungo alla mia infinita lista di libri da leggere “Olive Kitteridge”, con il quale la Strout si è aggiudicata il prestigioso premio Pulitzer nel 2009 e che io, colpevolmente, non ho ancora letto.
Nessun commento:
Posta un commento