sabato 28 settembre 2013

"Suite francese", Irène Némirovsky

"Suite francese" è l'ultima drammatica opera di Irène Némirovsky. Questa scrittrice ucraina, ma naturalizzata francese, ha una storia crudele. Visse infatti una vita brevissima e sempre in fuga. Prima il trasferimento in Russia, ancora bambina, poi la fuga nel 1918 a causa della rivoluzione. In Francia essa trovò non solo l'amore ma anche la fama come scrittrice. Con l'avvento della seconda guerra mondiale e con l'ascesa del nazismo, essa fu costretta alla latitanza a causa della propria condizione di ebrea, insieme alla propria famiglia, nella Francia rurale ormai assoggettata ai conquistatori tedeschi. Ma a nulla valse la sua estrema notorietà come narratrice, né la conversione al cattolicesimo o la fuga: nel luglio del 1942 fu arrestata e deportata ad Auschwitz dove morì poco dopo il suo arrivo. Aveva appena trentanove anni. Durante la latitanza la Némirovsky cominciò la stesura di questa sua ambiziosa opera, "Suite Francese", di cui scrisse, e non revisionò, due dei cinque atti che aveva progettato, "Tempesta in giugno" e "Dolce". Si tratta di un romanzo complesso e ricco, una sorta di poema epico di cui la Francia sconfitta e invasa dall'esercito tedesco non solo ne è scenario, ma anche protagonista assoluta. Le vicende hanno inizio nel giugno del 1940, con i parigini in fuga da una città ormai perduta e col nemico alle porte. "Tempesta di giugno" narra di alcune di queste persone fuggiasche ed in particolare della ricca famiglia Péricard, dei piccolo borghesi Michaud e del celebre scrittore Gabriel Conte. Tutti, a loro modo e coi loro mezzi, tentano di fuggire da Parigi per raggiungere il cuore della Francia e scampare all'irresistibile avanzata tedesca. Ben presto conosceranno la fame, la paura, la morte, attraversando una nazione ormai allo sbando, dove nessuna regola morale o legge paiono esistere più. 
Nel secondo atto, "Dolce", lo scenario cambia radicalmente. Siamo a Bussy, un borgo occupato dall'esercito tedesco. la Némirovsky si sofferma a descrivere la dura vita dei poveri, le restrizioni, i duri divieti tedeschi. Ma ci viene raccontata anche quella di cui i libri di storia non parlano, e cioè l'inevitabile integrazione tra occupati e occupanti. I soldati tedeschi oltre ad essere l'incarnazione del nemico, sono ragazzi lontani dalle loro famiglie, che cercano in qualche modo di trovare affetto e simpatia tra gli abitanti di Bussy. I protagonisti di questo atto sono i contadini Labarie, già conosciuti nella parte precedente, e la famiglia Angelier, ricchi borghesi la cui villa viene destinata ad alloggio di un comandante tedesco. Mentre il fedifrago marito è prigioniero di guerra, tra l'infelice Lucile Angelier e il suo ospite, Bruno von Falk, nasce una segreta e scandalosa storia d'amore, fatta per lo più di silenzi. Il romanzo si conclude con i tedeschi in procinto di lasciare Bussy alla volta della Russia, nell'estate del 1941, e con Lucile pronta a partire per Parigi per salvare Benoit Labarie, macchiatosi del delitto di un ufficiale tedesco. 
"Suite francese" fu pubblicato nel 2004 da Denise Epstein, una delle sue due figlie, ritrovato in una vecchia valigia che conteneva i diari, le lettere, le bozze dell'intensissima attività di Irène. Infatti la sua produzione fu straordinaria, la scrittura per lei fu un atto necessario, spontaneo, irrinunciabile, anche quando la carta scarseggiava per via della guerra. "Suite francese" è un romanzo incompleto, ma allo stesso tempo finito. Non sapremo mai nulla dei destini dei personaggi che la Némirovsky ci descrive con tanta solerzia e crudeltà, eppure in parte li possiamo comprendere. Tutti sono in balia della storia e tutti da essa sono spinti a mostrare il loro lato peggiore e bestiale. Solo i Michaud e Lucile paiono conservare la loro umanità, seppur imperfetta. L'odio della Némirovsky per la ricca borghesia francese, per le contraddizioni della sua nazione adottiva, ed in particolare per le donne, trovano perfetta espressione nella sua incontenibile rabbia, che traspira da ogni parola e non è stata limata dalla revisioni.
Un bel romanzo, assolutamente unico nel suo genere, e che ha permesso di ridare meritata notorietà ad una grande scrittrice dal destino sfortunato.

venerdì 20 settembre 2013

“Sotto una cupola stellata – Dialogo con Marco Santarelli su scienza ed etica” Margherita Hack


Margherita Hack, una delle scienziate più “pop” e amate d’Italia, è mancata il 29 giugno di quest’anno. In vita, oltre a essere stata una grande astrofisica, conosciuta anche all’estero come “La Signora delle stelle”, si è sempre espressa su svariati temi, dalla politica alla religione passando per l’etica, in particolare per quanto concerne il rapporto che esse hanno con la scienza. In questo libro-intervista essa si esprime proprio su questi temi: la sua idea di religiosità (essa si definì sempre “atea e laica”, atea in quanto non credeva in dio, laica perché non tentò mai di imporre il proprio punto di vista e rispettò sempre tutte le confessioni, punti di vista e credenze) e i contrasti che i credo religiosi hanno instaurato nei secoli con la scienza, l’etica laica che dovrebbe governare lo sviluppo teorico e tecnologico, il ruolo della politica nello sviluppo di una cultura scientifica che purtroppo in Italia è ancora molto arretrata, il ruolo della donna nel campo scientifico e le possibili soluzioni al problema delle università, ma non solo. Lo sport, il matrimonio, il vegetarianismo, internet e i nuovi social media. Sono pochi gli argomenti su cui la Hack non avesse un’opinione e questo libricino resterà uno dei suoi tanti testamenti morali ed ideologici.
Come donna e scienziata, come “cervello in fuga” da un sistema universitario ormai ridotto in macerie da numerose riforme politiche del tutto catastrofiche (e che a Hack descrive senza troppi giri di parole), non potevo che adorare questo scritto. Una grande collezione di perle di saggezza di una grande donna, cittadina e scienziata, che purtroppo con la sua morte ha lasciato un vuoto incolmabile nella nostra società, soprattutto per la sua immensa capacità di spiegare con parole semplici, e quindi far capire anche a noi profani, le complicatissime leggi che regolano l’universo e le sue adorate stelle.

martedì 10 settembre 2013

"A sud del confine, a ovest del sole", Murakami Haruki

“A sud del confine, a ovest del sole” è un romanzo del 1992 di Murakami Haruki, giunto alle stampe in Italia solo nel 2000 (Feltrinelli) e ristampato recentemente da Einaudi, sulla scia dello strepitoso successo della trilogia “1Q84” (qui la recensione del primo/secondo capitolo e del terzo). Questo romanzo breve (per i canoni di Murakami) fu scritto dopo “Dance Dance Dance” (1988) e soprattutto dopo “Norwegian wood – Tokio Blues” (1987). La storia vede come protagonista un uomo normale dalle qualità comuni (come la maggior parte degli uomini dell’universo di Murakami). Hajime è un figlio unico e crea con la piccola Shimamoto, anch’essa figlia unica e claudicante a causa della polio, un rapporto di splendida amicizia che diventa via via tanto profondo da trasformarsi in un ingenuo e tenero amore. Ma causa del lavoro dei genitori i due bambini vengono separati. Hajime diventa un uomo senza particolari ambizioni la cui vita viene segnata dapprima dalla brutta fine della storia con la sua prima fidanzata Izumi (che gli fa capire che può far soffrire in modo straziante le persone), poi dal matrimonio con una ricca rampolla del quartiere Aoyama, Yukiko, il cui padre permette ad Hajime di avviare due locali di musica jazz molto popolari e trendy. La vita di Hajime sembra perfetta e solida dal punto di vista affettivo e finanziario, sebbene segretamente egli continui a cercare tra la folla delle strade di Tokio la sua amica Shimamoto. È proprio grazie allo straordinario successo dei suoi locali che una sera, seduta al bancone del suo bar, Hajime finalmente ritrova Shimamoto. Il ricongiungimento con il suo amore di una vita non può che spezzare gli equilibri sia materiali che psicologici di Hajime, costringendolo a prendere decisioni strazianti.
In questo romanzo tornano alcuni degli elementi che hanno reso famosi i romanzi di Murakami in tutto il mondo: oltre alla musica (la canzone “South of the border” di Nat King Cole dà il titolo al romanzo), alle figure maschili inette e comuni, troviamo anche donne straordinarie e misteriose, scene di sesso molto particolareggiate e soprattutto il Giappone e Tokio, che sono protagonisti assoluti della sua scrittura. Di nuovo torna l’alone di mistero ma in questo caso non sfocia nella sfera esoterica come per “Dance Dance Dance”. Anche il suicidio, tanto caro a Murakami e problema molto sentito nella società giapponese, viene trattato, ma in questo romanzo in modo più spirituale e meno fisico che in “Norwegian wood”. Per una volta sarete contenti di sapere che non ci sono gatti o pecore tra i protagonisti, né si parla in continuazione di cibo.
La spinta emotiva di questo romanzo è molto forte: l’amore è il motore delle esistenze ma esso pare essere sempre e inesorabilmente connesso con atroci sofferenze. Non pare esistere rapporto equo ed equilibrato, l’amore necessariamente è estremo e conduce al dolore.

Essendo una grande ammiratrice di Murakami (ogni anno incrocio le dita che lui o Roth vincano il Nobel per la letteratura ma non sono mai accontentata), ho apprezzato “A sud del confine, a ovest del sole”, ma non posso negare che non si tratta di certo della sua opera migliore. Non ha la stessa intensità di “Kafka sulla spiaggia”, lo stesso pathos di “Norwegian wood”, la follia di “Dance Dance Dance”, né l’innovatività di “1Q84”. Se non avete mai provato Murakami non vi consiglio di partire da questo romanzo, non rende abbastanza giustizia alla sua maestria di scrittore e alla sua unicità narrativa, pur essendo un buon libro.