“Ogni mattina a Jenin” è l’opera prima di Susan Abulhawa, una scrittrice americana di origini palestinesi. Si tratta di un’epopea familiare segnata dall’odio e dall’amore. La storia inizia nella Palestina degli anni Quaranta del Novecento. La famiglia Abulheja vive, nel villaggio di ‘Ain Hod, una vita scandita dai ritmi della terra e degli ulivi, delle rose e degli amori. Allo scoppiare della guerra arabo-israeliana del 1948 la famiglia Abulheja viene allontanata dal proprio villaggio e trova rifugio nel grande campo profughi di Jenin. La storia di questa famiglia diventa la storia di un popolo scacciato dalle proprie terre e allontanato dalle proprie radici: ci sono gli anziani che tentano di tener viva la tradizione e la cultura palestinese nei cuori dei più giovani, gli adulti che vivono ogni giorno come drammatica attesa del ritorno alle loro vite, i bambini che nascono e crescono tra le case di paglia e argilla ascoltando i racconti della terra che non potranno mai calpestare, covando in petto un odio e un rancore trasmessi loro dal peso della storia. Il racconto assume spesso il punto di vista di Amal, la figlia più giovane di Hassan e Dalia Abulheja: i suoi racconti conducono il lettore attraverso le terribili vicende della guerra dei Sei giorni, la vita in un orfanotrofio di Gerusalemme, l’esilio negli Stati Uniti. E poi il ritorno in Libano dove Amal troverà l’amore e se stessa, e dove di nuovo la guerra sconvolgerà la sua vita e la costringerà a fuggire.
Questo romanzo ha un enorme pregio: in letteratura la questione israelo-palestinese è trattata, nella quasi totalità dei casi, da voci israeliane (seppur critiche, in alcuni casi). Susan Abulhawa dà voce finalmente al punto di vista palestinese. Un secondo punto di forza è la riflessione continua, che attraversa ogni pagina del libro e tutti i suoi personaggi, sul dolore e sulla conseguente reazione alla perdita di ciò che si ama, della propria libertà e della propria vita. Tutti i protagonisti perdono le cose e le persone che amano e ognuno metabolizza il dolore e la disperazione a suo modo: Dalia reagisce al rapimento del piccolo Isma’il rinchiudendosi in un mondo suo, fatto di fantasmi e ricordi coi quali essa sola può dialogare; Amal fugge lontano e ricopre il suo cuore di una coltre di ghiaccio impenetrabile; Yussef decide di vendicarsi in modo violento e distruttivo. Nonostante tutto le vite dei protagonisti sono però trascinate da un motore inarrestabile: l’amore. L’amore coniugale, per i propri figli, per la propria terra è il filo conduttore tra una generazione ed un’altra, e si fa veicolo di speranza. Ad esso è contrapposto l’odio, profondo, viscerale e quasi animalesco, con il quale i personaggi devono confrontarsi e del quale spesso diventano vittime.
Ogni pagina di questo romanzo apre lo sguardo del lettore su uno dei più gravi conflitti che da ormai oltre sessant’anni affliggono il Medioriente. La mia sensazione finale è che la catena di orrori che si sono scatenati in quella terra difficilmente riuscirà ad essere interrotta, perché troppo gravi sono le ingiustizie e le violenze che si sono perpetrate nei decenni, sotto lo sguardo di un Occidente che ha finto di non vedere e di non sapere.
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