Questo romanzo ha un enorme pregio: in letteratura la questione israelo-palestinese è trattata, nella quasi totalità dei casi, da voci israeliane (seppur critiche, in alcuni casi). Susan Abulhawa dà voce finalmente al punto di vista palestinese. Un secondo punto di forza è la riflessione continua, che attraversa ogni pagina del libro e tutti i suoi personaggi, sul dolore e sulla conseguente reazione alla perdita di ciò che si ama, della propria libertà e della propria vita. Tutti i protagonisti perdono le cose e le persone che amano e ognuno metabolizza il dolore e la disperazione a suo modo: Dalia reagisce al rapimento del piccolo Isma’il rinchiudendosi in un mondo suo, fatto di fantasmi e ricordi coi quali essa sola può dialogare; Amal fugge lontano e ricopre il suo cuore di una coltre di ghiaccio impenetrabile; Yussef decide di vendicarsi in modo violento e distruttivo. Nonostante tutto le vite dei protagonisti sono però trascinate da un motore inarrestabile: l’amore. L’amore coniugale, per i propri figli, per la propria terra è il filo conduttore tra una generazione ed un’altra, e si fa veicolo di speranza. Ad esso è contrapposto l’odio, profondo, viscerale e quasi animalesco, con il quale i personaggi devono confrontarsi e del quale spesso diventano vittime.
Ogni pagina di questo romanzo apre lo sguardo del lettore su uno dei più gravi conflitti che da ormai oltre sessant’anni affliggono il Medioriente. La mia sensazione finale è che la catena di orrori che si sono scatenati in quella terra difficilmente riuscirà ad essere interrotta, perché troppo gravi sono le ingiustizie e le violenze che si sono perpetrate nei decenni, sotto lo sguardo di un Occidente che ha finto di non vedere e di non sapere.
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