martedì 28 ottobre 2014

"Americanah", Chimamanda Ngozi Adichie

Forse sono un po’ arrugginita e questo mi dispiace parecchio perché ho davvero adorato questo libro. Partiamo da alcune premesse. Inanzitutto sul perché sono arrivata a leggere “Americanah”. Come ho anticipato nel post precedente, in questi mesi ho letto un altro libro scritto da una giovane autrice africana “We need new names” di NoViolet Bulawayo. Ancor prima avevo letto il bellissimo “La bellezza delle cose fragile” di Taiye Selasi (qui trovate la recensione che avevo scritto), e mi sono molto appassionata di queste giovani e talentuose scrittrici africane, che conoscevo pochissimo. Corre un parallelo tra questi libri, la condizione di migrante che riguarda una grande parte della popolazione africana, fenomeno che negli ultimi anni sta riguardando sempre più spesso anche noi europei (me, in primis). Nel romanzo della Bulawayo, per esempio, c’è un bellissimo passaggio sulla zia della protagonista che si esercita a comporre discorsi in inglese, davanti allo specchio, concentrandosi sulla pronuncia americana perfetta, ma poi, quando si ritrova ad affrontare una conversazione vera, la sua lingua si ingarbuglia e non riesce a trovare le parole che prima sapeva. Ecco, questo è solo un esempio molto banale delle difficoltà che un migrante incontra nella sua vita quotidiana, e che la Bulawayo è abilissima a cogliere e a descrivere. Ma torniamo ad "Americanah". Oltre all’interesse per la emergente letteratura africana, mi è capitato di leggere diverse recensioni entusiastiche di di questo romanzo, che tra l’altro è anche stato inclusa nella lista dei 10 migliori libri del 2013 secondo il New York Times, e, ultimo ma non meno importante, di Chimamanda Ngozi Adichie si è parlato molto grazie al suo discorso, tenuto nel dicembre 2012 alla conferenza TEDx, “We should all be feminists” (qui trovate il link al video, in inglese) che è diventato popolare anche grazie alla cantante Beyoncè, che, nel dicembre 2013, ne ha campionato una parte per inserirla nella sua canzone “Flawless”. Io, che non faccio mistero del mio essere femminista, ovviamente non potevo che interessarmi a questa scrittrice. Tra le altre cose “We should all be feminists” è anche diventato un libro (edito da Penguin, qui nel Regno Unito, proprio qualche settimana fa), e molto probabilmente ne scriverò a breve. Se siete interessati a scoprire qualcosa di più di questa scrittrice qui potete trovare un suo pezzo, uscito recentemente sul Guardian, sulla sua idea di femminismo (in inglese). 
Ma passiamo al libro. “Americanah” (appena uscito in Italia, edito da Einaudi, ma che ho letto in “anteprima” per voi in lingua originale) prende il suo titolo dal modo in cui in Nigeria, dove parte del romanzo si svolge, vengono chiamati gli emigrati che tornano in patria dopo aver trascorso del tempo all’estero e in particolare negli Stati Uniti. E l’”americanah” in questo caso è Ifemelu, una donna forte e combattiva che, dopo oltre dieci anni trascorsi negli Stati Uniti, dove è approdata grazie ad una borsa di studio universitaria, decide di tornare in patria. Il lungo periodo di Ifemelu all’estero viene descritto nella parte centrale del libro: la giovane donna, appena arrivata nella tanto sognata America, deve affrontare le difficoltà con il denaro e la Green Card, le differenze culturali che rendono difficile la sua vita quotidiana e così scoprire la difficile condizione di migrante. Ma anche il razzismo, strisciante presenza, che condiziona la stessa percezione che Ifemelu ha di se stessa (“Ho scoperto di essere nera quando sono arrivata qui”), diventa protagonista della storia. Dopo molte traversie, però arriva la rivincita con un blog di successo che parla di razza e razzismo, una borsa di studio a Princeton e la vittoria di Barack Obama alle elezioni presidenziali, che fa sperare in un futuro migliore per gli USA. Ma sono tante le cose Ifemelu ha lasciato in Nigeria e che la spingono a ritornare, su tutti Obinze, il suo grande amore giovanile, che ha abbandonato senza una parola dopo il suo arrivo in America. Obinze ora è sposato, ha una bambina ed è diventato uno speculatore edilizio di successo a Lagos, dove conduce la sua esistenza dorata e infelice, con una donna che non ama e sempre tormentato dal fantasma di Ifemelu, che non ha mai dimenticato. 
Si tratta di una bellissima storia d’amore tra due trentenni che si ritrovano dopo essersi conosciuti troppo presto e dopo essere stati allontanati dalle contorte vie della vita. Un amore straordinario e irrefrenabile, che non può essere arrestato dal tempo, dalla lontananza o dalle convenzioni sociali. Ma “Americanah” è molto più di una semplice storia d’amore. È una riflessione su due paesi molto diversi tra loro, la Nigeria e gli Stati Uniti. Uno con la sua esplosione economica, spinta dalla corruzione e fondata su differenze sociali troppo profonde per essere sostenibile, e l’altro con le grandi opportunità che può offrire al caro prezzo dell’accettazione di razzismo e prevaricazioni. Il racconto è vivido e pulsante di vita, ogni parola è vera e sentita perché la storia di Ifemelu è molto simile a quella della Adichie. L’autrice vive tra Nigeria e Stati Uniti e ha spesso affrontato gli stessi problemi descritti in Americanah anche in saggi, lezioni e interviste (spesso ha dichiarato di essere riconoscente per le opportunità donatele dall’America ma che questo non la farà tacere sull’enorme problema del razzismo, che affligge in modo particolare i neri, Americani e Non-Americani.). Una bellissima lettura e una voce nuova e potente da tenere sott’occhio nei prossimi anni.

sabato 25 ottobre 2014

Un lungo silenzio


Sono svariati mesi che non scrivo un post. Molte cose sono cambiate nella mia vita (anche se resto, per ora, un “cervello in fuga”, precario, e sempre alla ricerca di me stessa) e il tempo per scrivere delle mie letture è venuto spesso a mancare. Forse, se devo essere sincera fino in fondo, anche un po’ l’ispirazione, la voglia di trovare sempre qualcosa di bello o particolare in ogni libro che leggo, e il desiderio di raccontare le emozioni che leggere suscita. Questo non significa che io non abbia letto nulla di bello o interessante in questi mesi. Molto del mio tempo è stato risucchiato (è la parola più appropriata, credo) da una lettura non proprio in linea con i miei gusti e con questo blog: le “Cronache del ghiaccio e del fuoco” di George RR Martin. Su consiglio del mio fratellino, appassionato e devoto lettore, mi sono lanciata in questa titanica avventura. Rimanendone inaspettatamente e irrimediabilmente invischiata. Mi si è aperto un vero e proprio mondo in cui tra amici partono lunghe e minuziose discussioni psicologiche su personaggi di fantasia che però vengono trattati come amici di lunga data, teorie sugli sviluppi della trama (le prove del DNA in certi casi farebbero comodo, anche nell’epoca indefinita del mondo del nostro Georgione). Per non parlare delle ossessionanti paure sullo stato di salute dello scrittore (“Ma le sue coronarie come staranno? Riuscirà a scrivere questi due ultimi libri? Lo vedo ingrassato e stanco.”). Sono stata addirittura abbordata da perfetti sconosciuti che, dopo aver sbirciato il mio ereader, mi chiedevano “Leggi le “Cronache del ghiaccio e del fuoco”? Cosa ne pensi? Qual è il tuo personaggio preferito (Arya, che domande!)? A che punto sei?”. Insomma, un mondo parallelo che ruota attorno a una serie di libri che non hanno la pretesa di essere grande letteratura ma che spingono milioni di persone a leggere e ad appassionarsi, a parlare e ad amare un romanzo. Come posso non adorare una cosa del genere? E poi sì, sono terribilmente nerd, non potevo che scoprire di amare il genere fantasy!
Ma non sono solo state le migliaia e migliaia di pagine delle “Cronache” ad avermi impegnata. Ho viaggiato per l’Europa con Edmond Dantes alla ricerca della vendetta perfetta, ne “Il conte di Montecristo” (sublime romanzo!), sono stata a Belleville con la tribù Malaussene, ne “Il signor Malaussene”, esplorato Londra, dalle periferie multietniche di Zadie Smith in “NW”, ai sobborghi più borghesi di Nick Hornby (“Non buttiamoci giù”), fino al cuore della moda con Robert Galbraith/ JK Rowling e il suo sorprendente “Il richiamo del cuculo” (per gli appassionati del genere poliziesco una lettura caldamente consigliata). Sono passata per un paio di letture che da anni avevo nella mia lunghissima lista “Da leggere”: “Le ore” di Michael Cunningham, una delicata riflessione sull’omosessualità, la depressione e il suicidio, e “Fight Club”, che ovviamente non ha bisogno di grandi introduzioni.  E poi “Storia del nuovo cognome” di Elena Ferrante, secondo capitolo de “L’amica geniale”, sempre cristallina, scorrevole e coinvolgente. E poi due bellissimi libri di due scrittrici africane: “We need new names” (edito da Bompiani con il titolo “C’è bisogno di nuovi nomi”) di NoViolet Bulawayo e “Americanah” di Chimamanda Ngozi Adichie (appena uscito per Einaudi). Sono due romanzi molto diversi ma che parlando entrambi di donne che lasciano l’Africa per realizzarsi negli Stati Uniti, e che trattano il delicato tema dell’emigrazione in modo encomiabile, perché entrambe lo hanno vissuto in prima persona. Sono entrambe, la Bulawayo e la Adichie, giovani, vitali e molto originali. In particolare, “Americanah” mi ha convinta a riprendere in mano il blog e a ricominciare a parlare di libri. Ne leggerete prestissimo, nel prossimo post. 
State sintonizzati.

mercoledì 5 febbraio 2014

"Il passato è una terra straniera", Gianrico Carofiglio

Giorgio conduce una vita normale, quasi banale. Gli manca un esame alla laurea in giurisprudenza, è fidanzato con Giulia, che proviene dall’ambiente della Bari bene e con la quale trascorre le sue serate in una sonnolenta routine. Una sera si intromette in una zuffa per difendere un ragazzo che conosce appena, Francesco, e da quel momento la sua vita cambia improvvisamente. Tra i ragazzi nasce una buona amicizia e Giorgio comincia a frequentare sempre più assiduamente il nuovo amico. Ad unirli sono una serie di partite a poker che Francesco trucca grazie alle sue doti di prestigiatore e che fruttano ai due soldi facili. Inizialmente Giorgio è titubante, per via delle implicazioni etiche e della voce della coscienza, ma pian piano si fa prendere la mano dal gioco d’azzardo e dalla vita dissoluta che conduce. Tra i due si instaura un rapporto quasi morboso, con Francesco che domina del tutto Giorgio e lo spinge compiere qualunque azione egli abbia deciso, dimostrando un’abilità impressionante non solo nel manipolare le carte ma anche le persone. Ben presto l’adrenalina delle vittorie al tavolo da gioco non basta più e i due si ritrovano ad affondare insieme verso l’autodistruzione, Francesco senza mai un’esitazione, a testa bassa, e Giorgio spezzato dal sensi di colpa che gli provoca la vista dei propri genitori, spaesati e disperati per il suo improvviso cambiamento, ma incapace di resistere alla volontà del suo amico.
Questo romanzo ha un pregio, ha un ritmo davvero coinvolgente e non si può abbandonare la lettura finché non si arriva al fondo, insieme ai suoi protagonisti. Questa narrazione così incalzante e coinvolgente ha un che di cinematografico e non stupisce che Daniele Vicari ne abbia tratto un film, nel 2008. Al di là della dipendenza dal gioco d’azzardo, Carofiglio ci presenta una serie di personaggi ben riusciti, anche se probabilmente Francesco risulta tanto abile nei raggiri, tanto crudele e freddo da sembrare stereotipato. Il suo non mettere mai in discussione il proprio operato lo rende forse un pochino monotono e bidimensionale. Il protagonista, Giorgio, con la sua incapacità di trovare uno scopo nella vita e con il suo attaccamento a un’amicizia malata, è molto più interessante, e in generale lo è anche il concetto stesso di  dipendenza che attraversa tutto il romanzo, pur cambiando volto ogni volta. Un vero peccato è la figura appena abbozzata di Giorgio Chiti, carabiniere che indaga su una serie di stupri che sconvolgono Bari, ma che non viene approfondita abbastanza.

In generale è un romanzo piacevole e ricco di pathos, con una prosa limpida e scorrevole, ma la mia impressione è che molti argomenti vengano trattati e che nessuno venga davvero sviscerato fino in fondo, fino alla sua causa ultima. Nell’insieme mi ha lasciato una sensazione di superficialità.

domenica 26 gennaio 2014

"Zio Tungsteno", Oliver Sacks


Spesso amo dire che la mia anima è divisa in due. Due sono i miei grandi amori: la letteratura, con cui riempio gran parte del mio tempo libero, e la scienza, che è poi anche il mio lavoro. Sono una chimica e passo il tempo a sollazzarmi con i romanzi. Tutto questo mi era sempre parso contraddittorio (io che di solito tendo a vedere sempre tutto o bianco o nero), finché non ho letto “Il sistema periodico” di Primo Levi (che è e probabilmente resterà uno dei miei libri preferiti). Primo Levi visse tutta la sua vita con la mia stessa contraddizione e da questa scaturirono tra le più belle pagine della letteratura italiana. Ho quindi imparato a convivere con i miei due mondi ed entrambi mi hanno resa quella che oggi sono. La letteratura apre gli occhi sulla natura umana mentre la chimica mi fornisce ogni giorno gli strumenti per capire la natura e il mondo che mi circonda. Soprattutto credo abbia inculcato in me il desiderio di approfondire le cose, di andare oltre la loro apparenza e cercare di capire i meccanismi ultimi che regolano la mia vita e quella delle persone che mi circondano. Oliver Sacks mette nero su bianco qualcosa di molto simile e per questo mi sono lanciata con grandi speranze nel suo “Zio Tungsteno – Ricordi di un’infanzia chimica”. Prima un po’ di biografia: Sacks, londinese di nascita e americano di adozione, è un neurologo affermato che si è dilettato spesso nella scrittura di romanzi (di solito ispirati dalla sua esperienza medica, cosa che in più di un’occasione gli è valsa aspre critiche. Addirittura ne “I Tenenbaum” il personaggio di Raleigh St. Clair, interpretato da Bill Murray, è la caricatura di Sacks.). Ma fino all’adolescenza egli crebbe in un ambiente estremamente scientifico e, in particolare, chimico. La sua numerosa famiglia infatti annoverava svariati parenti impegnati nella matematica, nella chimica, nella fisica, che durante la sua infanzia lo incuriosirono e gli diedero strumenti sensazionali per comprendere queste branche. In particolare lo zio Dave, che dà il titolo alla autobiografia, era esperto di metalli e usava queste sue conoscenze nella sua fabbrica di lampadine a filamento di tungsteno. Grazie allo zio e agli esperimenti in un piccolo laboratorio artigianale (ma da fare invidia ai laboratori delle università italiane, sigh…), Oliver scopre i metalli e le loro proprietà, seguendo le trame affascinanti della storia della scoperta degli elementi. La storia personale di Sacks diventa pretesto letterario per condurre il lettore alla scoperta della chimica e la sua evoluzione, dagli alchimisti fino alla chimica quantistica.
Il libro è molto interessante ma può risultare pesante. Spesso le teorie riportate sono spiegate sì in modo semplicistico, ma richiedono comunque una qualche infarinatura per essere comprese. La cosa che probabilmente mi è piaciuta meno del libro è la figura stessa di Sacks, un ragazzetto asociale, un po’ spocchioso e parecchio saccente (per stessa ammissione dell’autore alla fine del romanzo). Probabilmente anche parecchio viziato dato che gli fu data la possibilità di costruire in casa un vero e proprio laboratorio chimico a meno di dieci anni (i genitori medici probabilmente erano parecchio impegnati nel lavoro perché oltre ad essere un’attività non propriamente ludica, poteva risultare anche estremamente pericolosa). L’altra pecca che ho notato è che la mia scienza, la chimica, mi è sembrata discosta dalla realtà, una scienza analitica e spesso pericolosa, dai termini difficili e racchiusa in libri polverosi e dai titoli altisonanti, una scienza spogliata della poetica bellezza che invece Primo Levi le sapeva attribuire. Sacks probabilmente non ha le stesse doti narrative di Levi, ma il risultato è che da scienza davvero capace di spiegare la vita e l’universo assume invece l’aspetto di una noiosa manfrina per pochi eletti.

Credo che sia un buon libro ma più adatto a chi ha studiato materie scientifiche o ne è appassionato, per gli altri potrebbe risultare un tomo di difficile digestione. Per tutti coloro che non lo avessero ancora letto, per capire meglio a cosa mi riferisco, leggete assolutamente “Il sistema periodico” di Levi, non ve ne pentirete.

domenica 19 gennaio 2014

"Stoner", John E. Williams

Molti di voi (me compresa) avranno sentito parlare di “Stoner” lo scorso anno ma questo libro è stato scritto nel 1965. Alla pubblicazione ricevette un buon consenso della critica e un discreto successo tra i lettori (nonostante le iniziali preoccupazioni di Williams e della sua agente, Marie Rodell, sul possibile riscontro commerciale), ma non divenne un best-seller. Il più grande successo Williams lo ottenne nel 1972 con il romanzo “Augustus” che vinse il National Book Award per la narrativa (ex-aequo con “Chimera” di John Barth). Williams non si presentò a riscuotere il premio e non scrisse più romanzi fino alla sua morte, avvenuta nel 1994, e il suo nome entrò nella schiera di quegli scrittori dimenticati dai più. E poi, come nell’editoria può accadere, un piccolo miracolo: nel 2006 venne ripubblicato dalla New York Review Books e da allora ha risvegliato l’interesse dei lettori di mezzo mondo, diventando il best seller che non era stato nel 1965. Nel 2013 è stato addirittura eletto libro dell’anno dalla Waterstones (la più famosa catena di librerie in Regno Unito), oltre a conquistare lettori illustri come McEwan, Hornby, Bret Easton Ellis, Peter Cameron e Tom Hanks. Ma cosa ha suscitato tanto clamore attorno a questo romanzo? Persino gli esperti del settore sono rimasti sorpresi di questo successo del tutto inaspettato e nato dal passaparola tra i lettori, la miglior pubblicità che un romanzo possa ricevere. Anche io mi sono interrogata su questo strano e ritardato successo, quest’estate, sotto l’ombrellone, osservando il mio fidanzato leggerlo con foga, incapace di staccarsi dalle sue pagine. Gli ho chiesto: “Come mai ti piace tanto? Di cosa parla?” e lui mi ha risposto candidamente: “In realtà non succede quasi nulla. È la storia di un uomo normale, ma è bellissima, una pagina tira l’altra.”. Ora posso confermare che è così. La storia, che Williams ha tenuto spesso a precisare non è mai autobiografica, nonostante i chiari parallelismi, comincia nel 1910 con il giovane William Stoner che approda all’università per seguire un corso di laurea in Agricoltura. Ma durante un corso obbligatorio di letteratura inglese viene letteralmente ammaliato dal sonetto 73 di Shakespeare, letto in aula dal professor Sloane, e decide di cambiare completamente il proprio corso di studi, e la propria vita. Invece di laurearsi in Agricoltura e tornare alla fattoria dove lo attendono i suoi anziani genitori, si laurea in Arte e comincia un dottorato in Letteratura Inglese. Presto diventa professore universitario e trascorre un’esistenza di studio, alle prese con una vita privata ben poco entusiasmante. La moglie Edith è presa da una personale guerra contro suo marito, in cui coinvolge anche la loro unica figlia, Grace. Mentre Edith tenta furiosamente di estrometterlo dalla sua casa, Grace cresce silenziosamente come una prigioniera in una fortezza di cristallo, compiendo in modo meccanico tutte le azioni che la madre le impone, discosta da ciò che la circonda come se la propria vita non fosse che uno spettacolo da osservare impassibilmente. Frustrato da tale tensione domestica, Stoner si butta a capofitto nella propria carriera di insegnante, motivato dal successo che pare avere con i propri studenti; ma ben presto si ritrova coinvolto in una disputa accademica con il potente professor Lomax e anche le sue ambizioni lavorative paiono essere bruscamente frenate. Si ritrova coinvolto in un rapporto extraconiugale con una giovane dottoranda, Katherine Driscoll, assaporando un po’ della felicità che gli sembrava preclusa, e scoprendo di poter provare un amore insaziabile e disperato anche per un altro essere umano, oltre che per i suoi adorati libri. Ma la vita di Stoner, senza infamia e senza lode, è la vita di un uomo infelice, alla ricerca di un senso profondo della propria esistenza, che il più delle volte pare solo essere una minuscola zattera sospinta dalla corrente irresistibile degli eventi. È questo il tratto distintivo e la forza di “Stoner”: è il racconto analitico, scarno e quasi impersonale della vita di un uomo comune, un’esistenza come ce ne potrebbero essere tante, di una persona che vive senza slanci e se ne va in silenzio, senza arrecare troppo disturbo. Ma si tratta anche di una storia di tremenda solitudine e infelicità, che viene vissuta senza tragedie o isterismi, senza grandi colpi di scena. La semplicità e la linearità della prosa di Williams sono esemplari. È un romanzo che si legge da solo, in cui ogni parola è studiata e limata per creare, attraverso il linguaggio stesso, l’impressione di normalità che permea la vita di William Stoner e che il suo autore ci descrive senza mai lasciar spazio a facili compassioni o giudizi. Ma il valore aggiunto dell’opera, a mio parere, sono le riflessioni che il protagonista si trova a fare, per lo più in modo casuale, come fossero illuminazioni, e che sono assolutamente plausibili e moderne: ogni essere umano si ritrova prima o poi a porsi le stesse domande, solo che Stoner lo fa attraverso le meravigliose parole di Williams, che si marchiano a fuoco in coloro che le leggono.

Arrivata all’ultima pagina, commossa e triste, ho capito cosa ha reso questo romanzo un successo anche a distanza di quasi cinquant’anni: William Stoner siamo tutti noi ed è per questo lo amiamo così tanto. Se non lo avete ancora letto, fatelo. Vi conquisterà.

domenica 12 gennaio 2014

"Ricordi di un vicolo cieco", Banana Yoshimoto

"Ricordi di un vicolo cieco" è una raccolta di cinque racconti che hanno come tema comune il dolore e la ricerca del significato profondo della propria esistenza. Avevo letto in precedenza e recensito per voi "La luce che c'è dentro le persone" (recensione qui), uno dei racconti estratto e inserito nella collezione Zoom di Feltrinelli. Il fil rouge che collega l'intera raccolta è la sofferenza dei propri personaggi: tutti, a causa soprattutto di eventi inaspettati e traumatici, vedono la loro vita rivoluzionata. Attraverso diverse vie tentano di unire i pezzi della loro esistenza andata in frantumi, lentamente tentano di ritrovare quella che appare come condizione inevitabile (ma difficilmente raggiungibile): la felicità. 
In "La casa dei fantasmi" Setsuko e Iwakura sono legati da un sentimento puro e profondo, nato sotto lo sguardo di due fantasmi, emblema dell'amore eterno che sconfigge anche l'avversità più ardua, la morte. In "Mammaa!", Matsuoka sopravvive ad un avvelenamento nella mensa aziendale e, come se la tossina le avesse intaccato anche il cuore, si vede spinta a mettere in discussione la propria vita e i propri affetti, interrogandosi sull'amore che prova per coloro che la circondano. Solo un ritorno alla semplicità delle proprie origini potrà condurla alla serenità. Oltre a "La luce che c'è dentro le persone", troviamo "La felicità di Tomo-Chan", in cui una ragazza fragile e segnata da tragici eventi, riesce comunque a condurre un'esistenza serena, protetta da uno sguardo soprannaturale che sente su di sè. Infine "Ricordi di un vicolo cieco" (che dà il nome all'intera raccolta e ne è forse il racconto meglio riuscito e più emblematico), in cui Mimi scopre che il proprio fidanzato sta per sposare un'altra donna. Il suo cuore in frantumi tornerà lentamente a battere grazie a puri istanti di felicità e all'amicizia con Nishiyama.
Cinque racconti molto malinconici ma sicuramente di effetto. Una riflessione sulla felicità che le cose semplici possono donarci, se impariamo a coglierle nei piccoli gesti quotidiani. Perché in fondo "In ogni caso la felicità è sempre dietro l'angolo: la felicità arriva all'improvviso, indipendentemente dalla situazione e dalle circostanze, tanto da sembrare spietata […]. È imprevedibile come lo sono le onde e il tempo. I miracoli sono sempre in arresa, senza far distinzione per nessuno."